La prima volta che ho sentito l’espressione “fare da modello musicale” me la ricordo benissimo. Ero a Bologna e stavo partecipando ad un workshop di Music Together®, un metodo che ho amato molto e ho praticato per 10 anni prima di sviluppare il mio personale approccio alla musica.
Il primo pensiero che ho fatto è stato “uh, che pesi questi ammmericani, sempre lì a voler classificare, definire, incasellare e dare un nome, ma che bisogno c’è? Fare da modello musicale! Non potevano semplicemente dire cantare e giocare con il tuo bambino?”
Ora della fine del weekend, però, avevo capito che no, non bastava, specie quando nella tua professione è prevista la partecipazione degli adulti.
E a dirla tutta non basta nemmeno ora, perché un’espressione apparentemente semplice come cantare e giocare con il tuo bambino, in realtà, racchiude interi mondi e può avere mille interpretazioni diverse a seconda dei vissuti di ognuno di noi. Potrei usarla, quindi, ma non potrei mai dare per scontata una sua interpretazione.
Facciamo un passo indietro.
La prima cosa da considerare è che, nonostante Maria Montessori avesse già precorso i tempi con i suoi studi e le sue idee, è solo dagli anni 60 del ‘900 che si è cominciato a cambiare radicalmente prospettiva nell’osservazione della prima infanzia e nella comprensione del funzionamento psicologico dei bambini. E con radicalmente intendo attraverso ricerche accademiche e studi multidisciplinari di lungo corso finalizzati allo sviluppo di nuovi approcci psicopedagogici.
Fra questi, la pedagogia dell’esempio è sicuramente una delle più conosciute, radicate e diffuse, sebbene non si tratti di una teoria esplicitamente definita, quanto piuttosto di un’espressione suggestiva che raccoglie attorno a sé una pluralità di processi educativi e di apprendimento per lo più informali, basati sull’osservazione e sulla riproduzione del modello scelto.
In estrema sintesi, la pedagogia dell’esempio osserva come il processo di apprendimento
- avvenga tramite osservazione e successiva imitazione da parte dei non-adulti verso i modelli
- presupponga relazioni affettive basate sul consenso, sulla reciprocità e sull’inclusione
- avvenga per “osmosi”, senza dicotomie premio/punizione e senza addestramento formale
- trasmetta non tanto competenze tecniche, bensì valori, atteggiamenti e modelli di comportamento tipici del gruppo di appartenenza
Il processo di socializzazione primaria – ovvero quello che permette al bambino, tramite le relazioni famigliari, di diventare un essere socializzato – è un esempio molto calzante di pedagogia informale.
Quando adulti e bambini partecipano ad attività condivise, imparano anche senza volerlo ad osservarsi reciprocamente e poiché l’adulto è in uno status relazionale e sociale più elevato, diventa un potenziale modello per il bambino, che tenderà ad imitarne i comportamenti e gli atteggiamenti.
Questo significa, prima di tutto, che i bambini, dai loro adulti del cuore – quelli cioè con cui hanno un legame affettivo, ovvero i genitori prima di tutto, e in seconda battuta tutti i “grandi” del loro mondo, come educatrici, nonni, tate, etc – imparano come prima cosa l’atteggiamento e non la competenza tecnica.
Ma questo, cosa c’entra con la musica? E soprattutto, vale ancora quando si tratta di musica? Se canto bene o male, cosa cambia?
Andiamo per gradi e facciamo alcune considerazioni.
La prima, da cui partire, è questa: come genitori siamo le fonti di informazioni principali, ma non siamo le uniche. In ambito musicale, possiamo tradurre questa affermazione dicendo che la nostra voce sarà sempre quella più cercata e più amata, ma non potremo impedire al nostro bambino di sentire radio, cd, altre persone. Avrà sempre una pluralità di fonti sonore a cui attingere e, con il tempo, imparerà a discernere anche la qualità di ogni singola fonte.
La seconda riguarda noi adulti e il nostro atteggiamento nei confronti della musica: come la viviamo? Come l’abbiamo vissuta nella nostra infanzia? Siamo stati lasciati liberi di esplorare, sbagliare, provare, o ci è stato semplicemente detto “tu al massimo suona il triangolo e mi raccomando non cantare”? Consideriamo la musica come un diritto di tutti, come un talento inspiegabile o come una gara a chi è più bravo? Con che convinzioni limitanti siamo cresciuti? Le riconosciamo? Le vogliamo trasmettere ai nostri figli?
La terza riguarda la natura stessa dei bambini, del loro sviluppo e del loro apprendimento. Il periodo prescolare è uno dei periodi sensibili, ovvero un periodo in cui le “finestre dell’apprendimento” sono spalancate e le capacità dei bambini di trasformare le informazioni in competenze al massimo del loro potenziale. Ma come apprendono i bambini? I bambini apprendono attraverso il gioco e la musica, per sua stessa natura, si presta moltissimo ad essere “giocata”. Questa affermazione affonda le radici nella struttura fisica e biologica del nostro sistema corpo-cervello-emozioni e anche grazie a ricerche accademiche relativamente recenti possiamo dire questo: tutti possiamo sviluppare la capacità di cantare intonati, di tenere il tempo e di pensare la musica – ovvero le competenze musicali fondamentali – e lo possiamo fare per il semplice fatto che il nostro corpo è fatto apposta per questo. Nasciamo sensibili alla musica e alle informazioni musicali. Il nostro sistema uditivo, il nostro cervello e il nostro corpo sono profondamente interconnessi e possiedono strutture in grado di captare, registrare, elaborare e produrre informazioni musicali, anche quando noi non vogliamo.
Ma queste competenze di base, per svilupparsi al meglio, richiedono tempo, occasioni e un ambiente emotivo adatto a supportarle, ovvero un ambiente fiducioso, accogliente, non giudicante.
Ritorniamo alla domanda iniziale: perché l’invito a “fare da modello musicale” anziché semplicemente “cantare e ballare con il proprio bambino?
Perché accogliere l’idea di fare da modello significa – come adulti – guardare in primis al proprio vissuto musicale di bambini, accoglierlo e, se necessario, superarlo.
Non tutte le infanzie, infatti, sono ricche di musica giocata ed è probabile che anche tu – genitore che leggi o ascolti queste mie parole – abbia avuto esperienze non positive e sicuramente non per responsabilità tua. I nati dagli anni ’70 ad oggi sono cresciuti in un mondo pieno di musica consumata e non di musica fatta in prima persona. Nella nostra infanzia c’è stata, con ogni probabilità, molta televisione e molta radio e poca musica suonata in famiglia o a scuola. Perché erano gli anni del boom economico e tecnologico e si accoglieva ogni novità con gioia ed entusiasmo. Ma il riflesso di questo è che in famiglia si è cantato e si è suonato sempre meno, e nella società si è data sempre più importanza alla musica come spettacolare frutto di un talento concesso a pochi.
Fare da modello musicale è un invito: a superare la propria autocritica, la propria timidezza e il proprio giudice interiore; a riappropriarsi della propria autostima data dalla semplice gioia di comunicare attraverso la musica; a riscoprire la bellezza della connessione attraverso le emozioni che solo la musica sa dare, in barba a qualsiasi velleità.
Richiede impegno, certo, ma la meraviglia di questa idea risiede proprio in questo: non solo siamo fatti per fare musica, ma siamo anche già perfetti per il nostro bambino.